Nelle prime ore di domenica 7 novembre 1915, una densa foschia si era stesa sul tratto di mare tra la Sicilia e la Sardegna.

Se il trentaduenne kapitänleutnant Christian August Max Ahlmann Valentiner, comandante del sommergibile U-38, avesse saputo cosa era stato nascosto nel transatlantico italiano Ancona, proveniente da Genova e Napoli, salpato da Messina per New York e Philadelphia con 446 passeggeri e 163 uomini di equipaggio, non l’avrebbe cannoneggiato e soprattutto, non avrebbe lanciato il siluro che ne devastò la zona centrale, affondandolo in pochi minuti.
I marinai di “Max” giuravano che il loro ufficiale aveva stretto un patto con il diavolo. “À la guerre comme à la guerre”. Una faccia, più che un viso. Alto, spalle larghe, naso deciso, bocca sottile, orecchie a sventola, occhi metallici, sfumatura da prussiano. Un duro, un giovanotto programmato come una macchina da guerra, un cronometrico esecutore di ordini. Un predatore capace di pazienza, prudenza e furore, un esperto di attrezzature subacquee, un trascinatore, un “fegataccio”arruolato diciottenne nella Kaiserliche Marine,che avrebbe presto sfoggiato una divisa trapuntata di medaglie. La prima, la Rettungsmedaille, guadagnata nel 1902 per aver salvato a Swinemunde un ragazzo che stava affogando. La seconda l’anno dopo, l’onorificenza del Kronenorder, l’Ordine della Corona Imperiale, per un marinaio strappato alla morte a Heligoland. Trenta sommergibilisti gli dovevano la vita. Intrappolati nel gennaio 1911 a Kiel nell’U-3 invaso dall’acqua penetrata da una valvola del circuito di ventilazione, avevano rivisto il cielo solo grazie all’impresa oltre i limiti della temerarietà di Valentiner. Tra i “miracolati”, il futuro kapitänleutnant Otto Eduard Weddigen, affondatore, nel settembre del 1914, degli incrociatori inglesi Aboukir, Hogue e Cressy, Croce di Ferro di Prima e Seconda Classe e Croce “Pour le Mérite”. Nel salvataggio, Valentiner aveva rimediato una grave, permanente affezione polmonare da inalazione di gas tossici e ancora il Kronenorder, questa volta di Quarta Classe. Se Valentiner avesse immaginato la presenza di quelle casse, a bordo dell’Ancona, avrebbe giocato diversamente le sue carte. L’asso della flotta subacquea tedesca aveva pescato un jolly che avrebbe potuto ridisegnare lo scenario in un mondo di schieramenti contrapposti che si sarebbero combattuti sino all’ultimo uomo per altri tre anni.

Una nave italiana trasportava una fortuna in “sovrane “d’oro negli Stati Uniti. Perché?La vicenda dell’Ancona è materiale che scotta, non solo politicamente. “Sovrane” d’oro coniate dalla zecca inglese per un controvalore attuale di decine di milioni di euro, stivate non là dove si credeva fossero ma in un altro locale del transatlantico, oggi coperti dai rottami del relitto sventrato dalla gigantesca tenaglia di una spedizione scozzese e di una successiva ricerca inglese. Qualche anno prima, un’équipe francese aveva tagliato alcune lastre della fiancata, entrando nello scafo con i sommozzatori, poi con un robot, senza distruggere, quasi con rispetto. C’è modo e modo di “fare” le cose. In questo sta la differenza.
Un’altra compagnia di recuperi da navi tesoriere, l’americana Odyssey, nota per alcune controverse spedizioni e per altrettante vicissitudini giudiziarie, è entrata in gioco, rimescolando le carte. Anzi, barando.
Il carico milionario dell’Ancona, il vero motivo della presenza a bordo di una fortuna in oro, il luogo dove erano stati nascosti i dodici forzieri nell’eventualità di un attacco nemico e di una razzia- il saccheggio era la norma e riguardava i beni dei passeggeri come l’argenteria, i liquori, i generi alimentari e tutto quanto avesse valore- il rimpiattino tra i ministeri degli Esteri italiani, americani, tedeschi e austriaci, la reticenza del capitano del transatlantico che non comunica le coordinate dell’affondamento, i “glissons” della commissione d’inchiesta governativa, sono tasselli di una spy-story tutt’altro che conclusa. Il caso dell’Ancona ricorda le scatole cinesi. Unica certezza, è l’aggressione da parte dell’U-38 di Max Valentiner. La cronaca dovrebbe scansare le aggettivazioni. Diciamo che è stata indegna di un ufficiale e di un uomo di mare, giustamente accusato, al termine del conflitto, di crimini di guerra. Migliaia di navi sono andate perdute. Ognuna vale una storia, riscoperta e raccontata. Quella dell’Ancona ha sconvolto sonni e sogni di cercatori di tesori, storici, appassionati. E predatori.

Il piroscafo. – Era un transatlantico ben costruito. Non un gigante del mare ma una solida, onesta nave passeggeri, con qualche pretesa di eleganza. Di lei aveva scritto la stampa americana nel maggio 1912, quando l’aviatore Frank Coffyn, socio dei fratelli Wright, era ammarato con il suo idrovolante biplano Burgess-Wright a poche centinaia di metri dalla nave, al largo di Tomkinsville, Staten Island. L’Ancona aveva fermato le macchine. Salito a bordo, Coffyn aveva consegnato al capitano Giuseppe Massardo una lettera indirizzata a un passeggero nella prima consegna di posta aerea della storia. Una fotografia “congelava” quel momento straordinario: il giovanotto in giacca di pelle e occhialoni e il corpulento ufficiale italiano che riceveva sorridendo la busta spiegazzata. I passeggeri si erano accalcati sulla murata, salutando l’aviatore che, sceso dalla biscaglina, aveva ricambiato. Un rombo cupo, il decollo, la virata, via verso Battery Park, estrema propaggine di Manhattan.
Era una buona nave, l’Ancona. 8.210 tonnellate, 124 metri di lunghezza, 2 eliche, 16 nodi di velocità, varata il 19 dicembre 1907 nei cantieri Workman Clark & C. di Belfast, era salpata per il viaggio inaugurale il 26 marzo 1908. Dopo un refitting disponeva di 60 posti in prima classe,120 in seconda e 2.500 in terza. Oggi l’Ancona è in assetto di navigazione, sotto mezzo chilometro d’acqua, infilata nel fondale fangoso per oltre sei metri. Quel che restava del suo scafo è rimasto a lungo intatto,con l’alto fumaiolo ancora trattenuto dai tiranti d’acciaio, sino alle incursioni che l’hanno sconvolto. Forse, il suo carico milionario è ancora lì. Il tempo può aver distrutto i forzieri di legno e i sacchi di juta in cui erano state riposte le “sovrane” ma l’oro è inattaccabile anche dal tempo.
Abbiamo usato un avverbio dubitativo, “forse”. I “versanti” diplomatici e politici sono altrettanto incerti, forse indefinibili, nonostante quel carico fosse stato imbarcato sull’Ancona con una plausibile. La dichiarazione di guerra tra Prussia e Italia era di là da venire anche se lo stato delle cose era diverso sia su terra che su mare. Nei fatti, la Prussia affiancava ufficiosamente l’imperial – regio esercito anche contro le truppe tricolori. Il 4 novembre Valentiner aveva già affondato nelle acque algerine di Capo Ivi, lo steamer italiano Ionio, 1816 tonnellate, dell’armatore palermitano Truco, non disdegnando di distruggere due giorni dopo, vicino alle coste algerine, il piccolo mercantile a vela di 208 tonnellate Elisa Francesca di Torre del Greco e il mercantile Ticino nel punto stimato 37°12’Nord, 07°12’Est.
L’U-38, un sommergibile tedesco costruito in Germania, con equipaggio e comandante tedeschi, innalzava la bandiera austriaca. Il sottomarino era del modello “31”, a propulsione diesel, costruito in 11 esemplari. Un battello molto avanzato rispetto agli “antesignani” alimentati a benzina, pericolosi per i vapori venefici e infiammabili. Le serie successive funzionavano a nafta ma le macchine, oltre che lente, emettevano un pennacchio di fumo denso e nero, visibile a decine di miglia, che invalidava l’effetto-sorpresa di ogni attacco di superficie.
Varato il 9 settembre 1914 nei cantieri Germaniawerft di Kiel, il battello di Valentiner era lungo 64,7 metri, largo 6,32. Potenza 1.850 cavalli, 16 nodi in emersione e 9,7 in immersione, autonomia di 8.800 miglia, massima profondità operativa di 50 metri e un equipaggio di 35 uomini, 4 camere di lancio tra poppa e prua. Aveva 6 siluri e un efficacissimo cannone pontato da 105 mm. Il palmares di Max Valentiner era già notevole. Con un distinguo. Non c’era granché di eroico, di temerario e di straordinario in un tiro al piccione contro chi non può difendersi. Decine e decine di navi aggredite e affondate prevalentemente a cannonate, per risparmiare i siluri che costavano 30mila marchi l’uno.
Il 17 agosto, ad esempio, Valentiner ne aveva attaccate dieci: il Bonny, il George Baker, il Glemby, l’Isidoro, il Kirkby, il Maggie, il Paros, il Repeat, la The Queen e il Thornfield. Nella rete era entrato di tutto: uno steamer di oltre 3.500 tonnellate come l’inglese Paros, il piccolo drifter George Baker di 91 tonnellate e il cargo spagnolo Isidoro dell’armatore Echevarrieta Y Larrinaga di Bilbao. Colati a picco senza eccezioni.
Sabato 6 novembre, Valentiner aveva affondato in successione il veliero siciliano Elisa Francesca di 209 tonnellate, lo steamer inglese Glenmoor in rotta per Bombay, il già citato steamer genovese Ticino di 1.470 tonnellate e il cargo francese Yser di 3.545 tonnellate, uno steamer di linea sulla rotta Cardiff-Bizerta.
Ogni sera, il totale del tonnellaggio finito ai pesci veniva aggiornato. Valentiner si era giocata la credibilità con l’ammiraglio Henning Von Holtzendorff, già comandante dal 1909 al 1913 della Hochseeflotte, la flotta d’altura, rientrato in servizio nel settembre 1915 dopo essersi dimesso nel 1913 per dissapori con Alfred Von Tirpitz e il kaiser Guglielmo II.
Senza la reciproca stima, l’affermazione di Valentiner sarebbe sembrata una guasconata. La premessa: Valentiner, in servizio nel Mare del Nord, “desiderava” essere assegnato al Mediterraneo. “Desiderava” perché l’ordine di inviare i sommergibili nel Mare Nostrum era stato dato dal Kaiser in persona dopo l’invasione inglese dei Dardanelli. Con eccellenti risultati immediati: l’U-21 aveva affondato il 25 e il 27 maggio 1915 le corazzate inglesi Triumph e Majestic. A giugno del 1915 i tedeschi avevano assemblato a Pola unità del tipo UB e UC, ricomponendo gli elementi trasportati da vagoni ferroviari. A Istanbul, a fine di quell’anno, la divisione U-Boote del Mediterraneo contava 7 unità. Non solo: 3 sottomarini del modello UB1, montati a Pola, erano stati trasferiti alla marina austriaca e altrettanti della serie UC1 furono riconvertiti per trasportare rifornimenti in Turchia.
La promessa di Valentiner: affondare naviglio per almeno 50 mila tonnellate durante il trasferimento. L’”ego” del kapitänleutnant era proporzionale alla potenza del cannone da 105 millimetri. Molti anni più tardi, scrivendo le sue memorie, ricorderà che Von Holtzendorff l’aveva preso in parola, accettando di inviarlo in Mediterraneo. “Ma le tonnellate non devono essere meno di cinquantamila!”.
Valentiner aveva rilanciato, chiedendo quale premio sarebbe stato riservato ai sommergibilisti se l’Inghilterra avesse capitolato. “Io”, aveva aggiunto, “vorrei diventare governatore della Colonia del Capo”. L’ufficiale che non esitava a fare a pezzi un innocuo peschereccio costiero, considerato a torto o ragione una pattuglia del nemico, saprà pennellare i ricordi con l’acquarello di un romanticismo da cartolina. “Prima o poi tutti i sommergibilisti sono preda della nostalgia del sole eterno, del Mediterraneo, dei pini, delle abbacinanti case di calce bianca, del cielo azzurro scuro come le nostre uniformi, della gente sfaccendata a zonzo per le strade che canticchia canzoni. Anch’io ero stato assalito dalla nostalgia. Ne ero pervaso. Si era impadronita di me un giorno in cui, tornato dopo giorni di missione nelle acque nebbiose e burrascose del Mare del Nord che costeggia la Scozia, avevo saputo che erano stati costruiti sommergibili di piccole dimensioni, con un equipaggio di soli quaranta uomini, a costruzione modulare in tre sezioni facilmente scomponibili e assemblabili, trasportabili su vagoni ferroviari. Treni che partivano per Pola, Costantinopoli, per le Fiandre…bruciavo dalla voglia di attraccare a Costantinopoli e di navigare in Adriatico!”.

La chiusa del paragrafo ha un “che” di mieloso. Il sommergibile era stato riverniciato- il cielo e l’acqua del Mediterraneo non sono quelli del Mare del Nord-, il viaggio era incominciato. La prima preda dopo Gibilterra, lo steamer inglese Woodfield di 3.584 tonnellate, attaccato a 40 miglia a Est Sud Est di Ceuta. E’ lo stesso Valentiner, ex post, a raccontare l’azione. Con una premessa auto elogiativa: “L’origine dei miei successi deriva dalla mia grande prudenza e dalla lunga esperienza di marinaio. Penso infatti che un ufficiale di marina, a maggior ragione un ufficiale di sommergibile, debba anzitutto essere un marinaio e soltanto in seguito un ufficiale… Ho sempre dato un’importanza quasi esagerata all’utilizzo del periscopio. Ricordo, infatti, di non essere mai stato scoperto mentre preparavo un attacco. Sono sempre riuscito, anche quando il mare era un olio, ad avvicinarmi sino a cento metri a una nave senza essere visto, anche se l’equipaggio scrutava la superficie con i binocoli più potenti”. “Molti sommergibili” continua Valentiner, “sono colati a picco a causa della scarsa esperienza dei loro comandanti: alzavano il periscopio in maniera impropria e subito venivano avvistati e speronati. O, anche, urtavano le navi che stavano affondando e tornavano alla base con il sommergibile gravemente danneggiato. O infine, troppo fiduciosi, cadevano in una trappola. Per farla breve, anche molti valorosi comandanti restavano vittime d’incidenti e avarie che farebbero ridere il più semplice ma sperimentato marinaio”.

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